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La Cina moderna e il rischio ecologico. Indagine e reportage sul paese-continente protagonista della nuova globalizzazione mercantile.

Wednesday 2 January 2013

La bottega di Confucio.

di Marco Palladino

da Modus Vivendi Nr.43 Aprile 2003
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“A distanza di 10 anni da questo reportage che scrissi a seguito di una lunga permanenza nel “continente” Cina, dal 2000 al 2001, e iniziando una serie di retrospettive sul lavoro giornalistico svolto anni orsono…fa impressione vedere che non è cambiato assolutamente niente. Questo reportage avrei potuto scriverlo ieri…”

SOMMARIO. Le norme sociali di una società contadina che consuma l’essenziale e pone le ricchezze prodotte a beneficio del gruppo potrebbero salvare la Cina da un disastro annunciato. Nonostante gli attacchi del maoismo alle tradizioni feudali, certi condizionamenti sociali hanno resistito e si sono rinnovati nell’ideologia nazionalista: lo spreco e l’accaparramento anzi banditi più che mai. Se l’industrializzazione è avvenuta a tappe forzate e saccheggiando come mai prima le risorse ambientali, la vera minaccia deriva dal nuovo corso economico iniziato da Deng Xiaoping e attualmente al suo culmine. Il “glorioso arricchirsi” ha sostituito la solidarietà di clan, e le nuove, ancor più anonime città mercantili ospitano sempre più individui e sempre meno gruppi familiari. I mercati internazionali, con l’ingresso della Cina nell’OMC, spingono ad aumentare la produzione, per garantire quell’arricchimento che solo potrà compensare le mutazioni violente in seno alla società e per competere sullo stesso piano con l’occidente e il suo stile di vita assolutamente disastroso.

Anziano suonatore di violino in un parco pubblico a Pechino

La Cina odierna presenta uno scenario che farebbe paura al più ottimista degli europei. Una popolazione che è quattro volte quella europea ripartita su uno spazio abitabile che non è altrettanto grande (buona parte del paese è steppa, deserti, alte montagne e brulli altipiani di loess). Se fossimo lo stesso numero, in Europa, probabilmente ci troveremmo sull’orlo di una crisi senza precedenti: le risorse esaurite, l’organizzazione stessa della società in pezzi. Come mai questo non è accaduto in Cina, e non sembra affatto che stia per accadere?

Partiamo da un dato storico-geografico. L’antica civiltà cinese, al pari di quelle dell’Egitto e della Mesopotamia, era una civiltà potamica. Fiumi imponenti, come il fiume Giallo, percorrevano le verdi campagne coltivate a riso, attraversavano le città e vi creavano stagni e piccoli mari. Uno degli elementi più importanti della creazione estetica cinese, il vuoto indelimitabile implasmabile, trovava degna trasfigurazione proprio nell’acqua. Ma in duemila anni il famoso Fiume Giallo è straripato 1500 volte. La piena del 1936 lasciò senza tetto 3.600.000 persone. Insieme con la siccità, le invasioni di cavallette, i terremoti e i tifoni, le inondazioni sono i metodi abituali con cui la natura in Cina elimina periodicamente qualche milione di individui lasciando il paese in ataviche carestie.

Monaci giovanissimi in pellegrinaggio in cima alla montagna sacra Wu Tai nel nord della Cina (prov. Shanxi)

Ecco allora che il problema ecologico, inteso come un divario netto tra lo sfruttamento umano delle risorse e la capacita di queste di rigenerarsi, che fu intuito già dalle antiche civiltà mediterranee quando si accorsero di aver setacciato e predato ogni metro del territorio, in Cina è del tutto ribaltato, con la natura a minacciare costantemente la sopravvivenza dell’uomo, e non il contrario. Eppure il filosofo Mencio, ad esempio, già nel IV sec. a. C. aveva trattato di erosione montana in un suo scritto. Così come nel I sec. a. C. il Libro dei Riti degli antichi maestri taoisti (Elder Tai) ammoniva a non inquinare l’ambiente; e l’imperatore Hsüng Tsung prescrisse severe pene per chi lasciasse che le immondizie della casa inquinassero le strade della città. Ciò nonostante, duemila anni dopo, il patrimonio boschivo dell’intera Cina era quasi dimezzato. Tanto che uno dei primi appelli di Mao dopo la costruzione della Repubblica popolare fu: “rimboschire la patria!”. In ogni caso, secoli di dominio della natura sull’uomo pesarono e pesano ancora nelle abitudini e nella mentalità vigenti. Basti pensare che la stessa urbanistica antica si sviluppò su principi ecologico-magici. La geomanzia, infatti, prevedeva la realizzazione di insediamenti (per vivi e defunti) in modo da armonizzarli con le correnti locali del respiro cosmico. Massima avversione si aveva per la linea retta. La forma delle colline, la direzione dei corsi d’acqua esercitavano una grande influenza, e non si tralasciavano le direzioni di ponti e strade, preferendo strade e muri sinuosi che si armonizzassero col paesaggio invece che dominarlo.

(1) I resti della muraglia cinese e i tentativi di rimboschimento in una zona semi-desertica. (2) Lavoratori in una stazione di benzina nel nord dello ShanxiOggi, quel che colpisce di più, in Cina, è il persistere di un’ambigua ma sincera venerazione della natura da parte di una società contadina che dalla terra riceve di che vivere ogni giorno. Basta fare un giro nei siti d’interesse naturalistico (e/o anche storico-artistico-religioso) per accorgersi di quanta semplice noncuranza e quanto puerile godimento del luogo accompagni i visitatori locali. Nessuna idealizzazione. La natura è innanzitutto la terra e i suoi frutti e i suoi animali, cibo per arrivare al domani. La sua bellezza colpisce ma non è idealizzata. L’anelito verso il naturale, in Cina, è semmai un fatto costitutivo. La stessa lingua cinese, d’altronde, si esprime assai poeticamente, ricorrendo sovente a immagini naturali (si dice a Pechino d’autunno: andiamo a vedere le foglie? Perché, per sapere se la stagione è incominciata, la domanda è: sono già gialle le foglie? La poesia è un normale modo d’esprimersi. Oppure si pensi all’ideogramma “Sole sotto piante in germoglio”, che noi tradurremmo con ‘primavera’. Lo stesso segno del sole impigliato nei rami del segno dell’albero, significa ‘est’, ‘oriente’). Il naturalismo del Tao (sicuramente la più antica elaborazione filosofica cinese o che almeno alle più antiche risale), con la sua visione dell’uomo non come un Prometeo artefice del destino ma come oggetto di mutevoli regole che egli non controlla, ne è l’espressione più raffinata e, guarda caso, oggi di grande attualità per chi vi ha saputo riscoprire le più autentiche interpretazioni delle “leggi di natura” (uno per tutti, il famoso Tao della fisica di F. Capra, 1975, ed. it. Milano 1982).

Molti cinesi con cui ho parlato durante il mio lungo soggiorno, anche e soprattutto nelle remote province montuose del nord (Shanxi, Mongolia), di città o no, ricchi o poveri, istruiti o no, a una domanda sul rapporto dell’uomo con il suo habitat, come causa del crescente deterioramento ambientale, rispondevano innanzitutto manifestando un profondo amore per la natura, un amore che ai nostri occhi potrebbe sembrare addirittura eccessivo in una società che negli ultimi cinquant’anni ha letteralmente cambiato i connotati di un continente. Un amore diverso, come detto, non idealizzato ma concreto, costitutivo di un mondo fatto di uomini e piante e animali che sono un tutt’uno, di un mondo in cui la produzione energetica, ad esempio, è ancora basata sul lavoro umano o animale, o è derivata – in campagna come in città - dall’onnipresente litantrace con scarso apporto del petrolio. Una modalità, questa, che è tanto rudimentale da rimandare a scenari da Europa proto-industriale, con gli stessi problemi di inquinamento dell’aria.

E’ questa intrinseca consapevolezza, che trapela dalle parole dei più, a far capire che dietro certi comportamenti (come ad esempio il cibarsi di animali rari, favorito dalla farmacopea tradizionale) si nasconde comunque un istintivo rispetto della natura, simile a quello che si conosce presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori che vivono in bande, incapaci di uccidere una preda più dello stretto necessario (l’etnologia in generale e l’etnoscienza in particolare ci hanno consegnato esempi di grandissima conoscenza ecologica - di tipo scientifico! - e di un conseguente rispetto/equilibrio, proprio presso quelle popolazioni che in passato sono state bollate come primitive o selvagge). Un cinese probabilmente sa godere allo stesso modo del canto di un uccello e del sapore della sua carne, senza dover necessariamente optare per uno dei due. Un tale atteggiamento farebbe rabbrividire un occidentale che, per varie ragioni, ha perduto la capacità di rapportarsi direttamente all’ecosistema, sviluppando così il noto atteggiamento di produttore/consumatore senza inibizioni o per reazione di protezionista tout court. Da questo punto di vista, l’uomo cinese è più “primitivo”, o forse quello occidentale lo è troppo poco.

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Spostandoci dal piano astratto del rispetto della natura a quello concreto dell’inquinamento, la risposta dei miei amici cinesi seguiva un altro corso: “l’inquinamento oltre che dannoso è soprattutto uno spreco”. Un’accezione, questa, che per noi non sarebbe affatto così immediata. Lo spreco, rispetto all’ordine diveniente della natura, va inteso anche nel senso di un’impossibilità di far tornare alla terra ciò che dalla terra proviene. Ora va da sé che una tale idea, nel contesto di una società contadina, è almeno paradossale. Ecologicamente l’agricoltura, anche la più savia, è sempre un’alterazione per l’ecosistema. Sottrae risorse che non tornano alla terra, necessita di disboscamenti, etc. L’introduzione dei fertilizzanti, seppure si ritornasse a quelli naturali (la rivoluzionaria invenzione del biologico!!), non muta di molto lo scenario, fintantoché regnerà l’idea di una manipolazione del territorio che non preveda il raggiungimento di un limite. Un limite che in Cina fa il paio con la necessità di sfamare milioni di bocche, ma che rappresenta il punto capitale intorno al quale si delineerà lo scenario futuro di questo paese. Quale atteggiamento prevarrà? La necessità di sfamare un miliardo di bocche parrebbe un ottimo deterrente contro lo spreco, ma il mondo dell’economia globale preme affinché anche la Cina diventi un mercato, più che una società di uomini. Un esempio concreto è la questione degli OGM, intorno ai quali si sta combattendo una lotta ancora una volta contro l’intrusione occidentale (americana), in un settore delicatissimo quale quello dell’agricoltura.

Vestigia della grande murgalia nella zona nord-ocidentale, il territorio è via di desertificazione a causa dei disboscamenti massicci perpetrati negli ultimi 50 anni

Questo non lasci credere che una pur così radicata filosofia di vita sia passata indenne attraverso la storia. Un grande cambiamento si ebbe certamente a partire dal ’49, quando la Cina intraprese uno sviluppo agricolo-industriale a tappe forzate. La Liberazione segnò un nuovo corso soprattutto culturale, benché in un alveo per certi versi tradizionale. Con un ribaltamento totale di prospettive, rispetto all’idea dell’uomo come un fuscello in balia della natura, l’esercito proletario teorizzato e concretizzato da Mao avrebbe costruito il suo giardino fiorito “qui ed ora”. L’uomo artefice del suo destino avrebbe plasmato la terra come un fanciullo la creta. Una delle più note parabole di Mao sulla forza del popolo era la seguente:

biciclC’era una volta, nella Cina settentrionale, un vecchio chiamato Yukong, che viveva nelle montagne del nord. La sua casa guardava a sud, su due grandi montagne, il Taihang e il Wangwu, che ne sbarravano le vie d’accesso. Yukong decise di togliere, con l’aiuto dei suoi figli, queste due montagne a colpi di piccone. Un altro vecchio, chiamato Tcheseu, vedendolo all’opera scoppiò a ridere e gli disse: - che stupidaggine state mai facendo! Non arriverete mai, da soli, a togliere due montagne! Yukong rispose: - quando morirò, continueranno i miei figli; quando loro moriranno, sarà la volta dei nipoti, e così via di generazione in generazione, senza fine. Per alte che siano queste montagne, non possono più crescere e a ogni colpo di piccone diminuiranno un po’. Perché non dovremmo giungere a spianarle?

E dopo aver confutato l’erroneo modo di vedere di Tcheseu, Yukong, incrollabile, continuò a picconare giorno dopo giorno. Ciò commosse il cielo che inviò sulla terra due geni a portare via quelle montagne sulle loro spalle.

Il nuovo corso toccò il suo apice iconoclasta con la disastrosa stagione della cosiddetta Rivoluzione culturale, cioè l’abbattimento delle ataviche istituzioni culturali necessario all’ammodernamento e alla nazionalizzazione di questo paese-continente, ma che nel lungo periodo non aprì tanto la strada alla creazione del giardino fiorito teorizzato da Mao quanto quella della politica mercantile iniziata da Deng Xiaoping. E’ questo il vero passaggio da focalizzare per capire quanto sta per accadere in Cina.

L’antica economia “di sussistenza”, infatti, subisce oggi un ripensamento globale. Quando si trattava di sfamare il popolo e fare grande una nazione, si poteva ricorrere senza problemi all’energia di base fornita dalle braccia lavoro. Lo sfruttamento del lavoro umano è sempre stato un segno peculiare dell’economia cinese, dall’antichità ad oggi senza discontinuità, e come tale ha creato non pochi imbarazzi ai governi comunisti di Pechino e ai loro grandi proclami di equità sociale, quando si faceva loro notare che le cose non erano poi cambiate di molto rispetto al feudalesimo che si pretendeva d’aver abbattuto.

Vilaggio povero nel nord dello Shanxi

Lo stesso sviluppo della scienza cinese viene storicamente ricondotto alla necessità di ottimizzare il lavoro umano a vantaggio dello Stato e non di sviluppare il lavoro meccanico a profitto del capitale privato, esigenza questa che caratterizzò invece l’Europa dal Rinascimento in poi e portò all’abbattimento della condizione feudale. Questa lunga gestazione per molti versi ricorda anche quella che guidò le società schiavistiche del mediterraneo a scarsissimo potenziale tecnologico (con l’eccezione di quella ellenistica. Vd. L.Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano 1998). Senza voler prendere una posizione, si deve però ammettere che una tale situazione ha saputo favorire un approccio più ecologico al consumo delle risorse, intendendo ‘ecologico’ nel senso di un rispetto utilitaristico ma spontaneo del proprio habitat, dal quale si trae direttamente sostentamento: una condizione peculiare cinese (e asiatica) forse ancora capace scongiurare il sicuro disastro ambientale che un continente lanciato verso il progresso economico-industriale a tassi di crescita da boom anni ’60 potrebbe innescare. Infatti, nel corso dei diciotto anni trascorsi dall'adozione della c.d. “politica della riforma e dell’apertura”, il prodotto interno lordo (PIL) della Cina ha raggiunto una crescita annuale continuata di circa il 10 per cento, mentre la sua qualità ambientale fortunatamente non ha conseguito il risultato di deterioramento corrispondente.

pagina7Un nodo che invece lega i governi precedenti a quelli attuali è la posizione rispetto all’antinomia “creazione di lavoro vs. salvaguardia ambientale”, che invero opera soltanto in seno a una società che vede nello sviluppo/sfruttamento a oltranza l’unica possibilità di crescita economica (e che in Europa almeno si sta cercando di superare integrando lavoro e ambiente). Se applicata arbitrariamente al caso cinese penderebbe prepotentemente verso il primo termine, giacché senza dubbio il benessere della popolazione è ancora considerato prioritario (benessere in senso cinese), ma questo non nega una profonda consapevolezza della finitezza delle risorse naturali. La cornice sociale, infatti è diversa e segna un grande punto di differenza rispetto all’occidente. Si parla in tal senso di una mentalità confuciana, che, passata indenne attraverso gli attacchi maoisti, è ancora abbracciata da moltissimi paesi asiatici (una nota tesi che è stata ripresa, ad esempio, nel libretto di E. Toaldo, Il ritorno di Confucio – L’enigma del miracolo asiatico, Roma 1998). Essa lega l’individuo a una serie di norme che pongono le esigenze della collettività sopra quelle dell’individuo. Volendo banalizzare il concetto, si potrebbe dire che l’uomo asiatico tenda a vedere il suo ruolo come inserito in un contorno di doveri verso la comunità in cui vive (e specularmene verso l’ambiente) mentre l’europeo/nordamericano si accorda con quelli che considera i suoi diritti di singolo - di singolo consumatore per dirla tutta - ponendo gli effetti globali delle sue azioni come lontane conseguenze dell’azione di un’anonima massa di individui di cui si sente di fare parte a malapena.

Resta un fatto fondamentale: la questione ambientale, almeno da trent’anni sollevata, è stata gestita finora anche con una grande dose di orgoglio nazionale. Infatti alle pressioni dei paesi industrializzati, preoccupati che il sistema produttivo perseguito in occidente non potesse reggere all’ingresso dei nuovi soggetti asiatici e alle loro enormi masse umane, i governi di Pechino hanno sempre opposto un’orgogliosa chiusura. La Cina, come tanti altri paesi sud-asiatici, non ha mai avuto bisogno di aiuti internazionali, e di contrarre quei debiti che invece continuano a soffocare i paesi africani. Una tale condizione è sempre stata riaffermata con vanto, e come indicazione di un ruolo guida nella riscossa dei paesi poveri. La “libertà di inquinare”, diciamo così, è una libertà dall’imperialismo economico dell’occidente. Già nel ’72, in occasione del summit sull’ambiente promosso dall’ONU a Stoccolma (era di quegli anni anche uno dei primi allarmanti rapporti del Massachusetts Institute of Technology sullo stato dell’ambiente), la Cina popolare, da poco ammessa all’assemblea mondiale al posto di Formosa, espresse proprio questa posizione. La sua intransigenza si scagliò anche contro la ricetta della crescita zero - alla quale oggi ci stiamo involontariamente avvicinando ma temiamo come il diavolo l’acqua – che per quanto rivoluzionaria apparisse in Europa camuffava, a detta di Pechino, l’ennesima espressione dell’egoismo dei ricchi. Ora che noi stiamo bene – pareva affermare – è bene che anche il resto del mondo si fermi.

Poverissimo villaggio agricolo nel nord dello Shanxi, in una zona soggetta ormai a desertificazione a seguito delle deforestazioni degli ultimi 50 anni

Oggi le cose stanno cambiando. A sostegno dell’esigenza di guidare un continente verso l’avvenire, si è affermata l’ideologia del “glorioso arricchirsi” che, da sola, dovrebbe convincere i cinesi dell’opportunità delle pericolose riforme mercantili (di quelle democratiche nemmeno l’ombra). Deng Xiaoping prima e Jiang Zemin dopo, sono riusciti a convincere 1.300.000.000 di persone che potranno tutti, prima o poi, godere di una nuova inusitata ricchezza monetaria. Ciò è stato giocoforza nelle città, dove più netti sono stati gli effetti delle epurazioni culturali del ’66. Inoltre, se dal ‘49 ad oggi la popolazione è quasi triplicata (nonostante l’oculata ma altalenante politica demografica, che invero non ha mai raggiunto le campagne, dove un figlio in più ha sempre significato braccia-lavoro aggiunte. Così anche nella comunità in cui ho vissuto - prov. Shanxi – dove avere più di un figlio era la prassi più che l’eccezione), l’obiettivo di contenimento si è invece raggiunto nelle grandi metropoli, dove milioni di figli unici, viziati e individualisti, hanno portato una ventata di rinnovamento proiettando la Cina verso nuovi orizzonti di produzione e consumo, dei quali l’ingresso nell’OMC non rappresenta che una tappa. Le scelte di politica economica dei governi, che hanno vieppiù abbandonato l’idea di autosufficienza per puntare sempre più al mercato mondiale, unitamente a questo cambiamento di mentalità, rendono l’urbanizzazione un fenomeno inarrestabile. L’odierna migrazione riguarda centinaia di migliaia di famiglie che si riversano nelle città senza la minima speranza di trovarvi accoglienza, semmai emarginazione e sfruttamento come cittadini di serie B, cioè senza alcuna garanzia di alloggio, assistenza sanitaria, istruzione, etc.

Mendicante nelle vie di Pechino davanti ai nuovi fastfood McDonaldLo scenario tipico della Pechino di oggi è quindi quello di uno strano cantiere di modernità. Passeggiando tra le poche vie storiche rimaste inalterate, si respira un’aria di placido pericolo, la netta sensazione di una calma apparente prima della fine. Come sapere che, fra un mese o due, la propria casa insieme a tutte quelle di un intero quartiere sarà abbattuta. Questa cancellazione, che era cominciata già trent’anni fa, opera sulle tracce fisiche della memoria in modo molto più efficace e rapido che le campagne politiche e “culturali” del periodo maoista. Nel centro della città, le vie famose, come Wangfujing, dai connotati totalmente rifatti, sono la massima espressione del nuovo consumo di massa. Ma basta girare l’angolo per ritrovarsi tra catapecchie fatiscenti e miseria.

Il rapporto di un miliardo di persone con l’ambiente, in una cornice in cui le ataviche strutture sociali di una cultura contadina tendono ora ad essere ripensate anche solo a livello urbanistico (le tradizionali case collettive con cortile sono sostituite dagli enormi alveari unifamiliari e delle larghe autostrade), non potrà che mutare repentinamente nel prossimo futuro, avvicinandosi pericolosamente a quello già intrapreso dall’occidente, con gli esiti che conosciamo. Se così non sarà, lo dovremo soltanto all’incredibile sperequazione che caratterizza la Cina odierna, in cui un benestante urbanizzato può permettersi di spendere l’equivalente del salario mensile di un contadino o di un neo-proletario comprando un banale capo d’abbigliamento o mangiando in un normale ristorante all’occidentale. Diversamente, l’impatto di 1.300.000.000 di persone votate agli stessi livelli medi di consumo dell’occidente non permetterebbe scampo. Davanti a tale prospettiva, un globale ripensamento dello stile di vita appare quanto mai necessario.

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